Martino Filetico

MedagliaDizionario Biografico degli Italiani – Volume 47 (1997)

di Concetta Bianca

FILETICO (Filettico), Martino. – Nacque a Filettino (od. prov. di Frosinone) da Antonio e Anna intorno al 1430. Con gli anni dovette trasferirsi a Ferentino e ivi eleggere la propria dimora: se, infatti, la testimonianza di Giovanni Sulpizio da Veroli, risalente al 1471 circa, annovera ancora il F. tra le glorie locali di Filettino (“et iam Philetico fulget per saecula vate”: Pecci, p. 98), il commento a Giovenale conservato nel manoscritto 1190 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, datato 1469-70, ne ribadisce nelcolophon la provenienza ferentinate (“viri doctissimi Martini Phyletici Ferentinatis super Iuvenalem scripta finiunt”, f. 63v).

Il F. fu allievo di Guarino Veronese, e dovette, quindi, compiere i suoi studi a Ferrara, anche se di tale soggiorno non rimangono tracce; con tutta probabilità la sua presenza in quella città coincise con il soggiorno di Giano Pannonio (1447-54), il quale dedicò al F. uno dei suoi epigrammi. Comuni con il maestro sarebbero stati comunque i metodi di insegnamento, le letture, i testi da commentare, quelli da tradurre: è significativo che nel commento al De senectuteciceroniano il F. riporti espressamente una posizione del maestro (“et quartum addebat praeceptor meus Guarinus”: Londra, British Library, Add. 10384, f. 26v), anche se poi in una redazione successiva tale riferimento sarebbe stato eliminato (“etiam recte adiungere possumus”: Grafton-Jardine, p. 86); e ugualmente nel commento a Orazio il F. farà infatti riferimento a Guarino come “meus et pater et praeceptor” (Bibl. apost. Vat., Ottob. lat. 1256, f. 106v). Altrettanto non documentato, ma in linea con gli ideali e le esperienze guariniane, è un viaggio in Grecia, durante il quale il F. presumibilmente dovette approfondire la conoscenza della lingua greca, i cui primi elementi rientravano comunque nel programma pedagogico guariniano: di tale viaggio rimane un generico cenno nella dedica dell’edizione delleEpistolae selectae ciceroniane, in cui l’intento pedagogico scolastico dell’edizione stessa lo portava a proporre come modello la propria formazione.

Intorno al 1454-55 il F. si recò a Urbino come insegnante di Buonconte, figlio primogenito naturale di Federico da Montefeltro, e di Bernardino, figlio di Ottaviano degli Ubaldini. Era stato lo stesso Guarino a suggerire il nome del F. per tale compito, come testimonia lo scambio epistolare (non datato, ma databile al 1454-55) tra Ottaviano degli Ubaldini e lo stesso Guarino.

Durante questo primo soggiorno urbinate il F. si accinse a tradurre i sette Idilli di Teocrito nella redazione di Moscopulo, attingendo il testo greco probabilmente da un codice della biblioteca di Federico, forse l’attuale Vat. Urb. gr. 140 della Vaticana (Theocritus quique feruntur bucolici graeci, a cura di C. Gallavotti, Romae 1946, p. 273): una prima stesura della traduzione teocritea è conservata nel citato manoscritto 84 della Biblioteca del Seminario di Padova, con dedica ad Alfonso V d’Aragona (la morte del sovrano aragonese, avvenuta il 27 giugno 1458, costituisce dunque un terminus ante quem), sotto il quale militava lo stesso Federico da Montefeltro. Ogni idillio è preceduto da una dedica in versi a vari personaggi, tra cui lo stesso Federico da Montefeltro, Alessandro Sforza, signore di Pesaro, e Antonio Panormita, il fedele segretario di Alfonso, nonché poeta acclamato della corte aragonese. Alla poesia si dedicava il F. in questi anni e indirizzava una sua raccolta in versi (conservata nel manoscritto padovano) a Pietro Camponeschi, conte di Montorio, personaggio vicino ad Alfonso d’Aragona. Nel 1457, probabilmente designato come persona culturalmente più eminente della piccola corte urbinate, il F. componeva l’orazione in morte di Gentile Brancalconi (luglio 1457), prima moglie di Federico da Montefeltro, con la quale, secondo i canoni della trattatistica consolatoria, traeva spunto per esaltare sia le qualità della defunta sia dello stesso Federico. Ma in primo luogo il F. si dedicava all’educazione dei due giovani Buonconte e Bernardino, ai quali, con tutta probabilità, doveva impartire anche i primordi della lingua greca; e se a Buonconte il Bessarione indirizzava una lettera in greco (accompagnata comunque dalla traduzione in latino del Perotti), a Bernardino giungeva invece un componimento di Porcelio Pandoni, nel quale si criticava l’insegnamento della lingua greca e di conseguenza l’operato del maestro, cioè del F. (G. Zannoni, Porcelio Pandoni ed i Montefeltro, in Rend. dell’Acc. dei Lincei, s. 5, IV [1895], p.120). Era questo il primo segnale di una polemica tra il F. ed il Porcelio che si sarebbe protratta per anni.

Il soggiorno del F. a Urbino si interruppe bruscamente quando i due giovani discepoli affidatigli morirono di peste durante un viaggio a Napoli, nel luglio del 1458. Il F. si trasferì a Pesaro presso la corte di Alessandro Sforza, dove provvide all’educazione di Battista, che nel 1460 sarebbe andata in sposa a Federico da Montefeltro, e di Costanzo. Durante questo periodo il F. compose un commento al De senectute ciceroniano, con dedica a Costanzo Sforza, commento di cui si conserva la prima redazione nel citato manoscritto Add. 10384, che reca sui margini correzioni autografe e proviene dalla biblioteca degli Sforza di Pesaro. Forse anche a Pesaro non mancarono alcuni contrasti, come sembra suggerire un breve cenno nelle Iocundissimae disputationes (p. 112), ma i rapporti con Alessandro Sforza dovettero rimanere sicuramente buoni visto che a lui il F. avrebbe dedicato in anni successivi il commento a Persio. Sempre ad Alessandro Sforza è dedicato il carme De primis inventoribus litterarum, conservato nel manoscritto XIV, 239 (4500) della Biblioteca Marciana di Venezia, che risale probabilmente a questo breve soggiorno pesarese.

Nel 1460 il F. si trasferì nuovamente a Urbino, al seguito di Battista Sforza, per rimanervi fino al 1467. Nell’ottobre 1461 accompagnò Battista a Roma e in tale occasione ebbe modo di presentare al pontefice Pio II, forse con scarso successo, alcuni frutti del proprio lavoro, che si trovano raccolti nel manoscritto 2040 della Biblioteca reale di Copenhagen, un codice autografo che doveva servire da presentazione: esso contiene infatti un carme a Pio II, un’ode saffica a Maria Vergine e soprattutto la versione del De laudibus Helenae di Isocrate, anch’essa dedicata al pontefice. Durante questo breve soggiorno romano sicuramente entrò in contatto con quanti gravitavano intorno alla Curia pontificia, e tra questi il Porcelio: la discussione sostenuta a Roma con un “senex” a proposito di un passo virgiliano (Aen. 1, 144) e a proposito dell’estensione della Magna Grecia – episodio che il F. ampiamente ricorda nelleIocundissimae disputationes (pp.210, 228), tacendo il nome dell’avversario – può essere ragionevolmente ricondotta, come ipotizza Arbizzoni, a uno scontro con il Porcelio, nel quale il F. utilizzava le sue competenze, attingendo alla conoscenza della lingua greca.

E se nell’ode saffica De hircitudine (conservata nel manoscritto 38, 38 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze), violenta invettiva dedicata a Ottaviano degli Ubaldini contro un anonimo avversario, può essere intravisto ancora una volta il Porcelio, va precisato che i distici del Porcelio In nebulonem qui utramque linguam profitebatur(Zannoni, p. 503) sono (come ipotizzava Dionisotti, p. 312) effettivamente rivolti al F. in quanto i quattro distici che lo Zannoni pubblicava dal Vat. Urb. 709 si ritrovano identici nel Vat. lat. 1670 con l’espresso titolo In greculum Filethicum(f. 116r).

In questo secondo soggiorno urbinate il F. proseguì nella sua attività di insegnante come precettore di Battista, ormai giunta a un elevato grado di formazione, ma anche del figlio secondogenito naturale di Federico, quell’Antonio cui il Bessarione nel 1467 avrebbe regalato un elegante codice greco con l’Iliade di Omero (l’attuale Vat. Urb. gr. 137). Probabilmente nei compiti di magister si inserisce la composizione del De viris illustribus, un poema didascalico di storia romana (attualmente conservato nel manoscritto V C 39 della Biblioteca nazionale di Napoli e nel manoscritto D 262 della Biblioteca Forteguerriana di Pistoia), composto nell’autunno del 1462, che ha inizio con sette epigrammi sui sette re di Roma, epigrammi che tra l’altro il F. avrebbe inserito nel III libro delle Iocundissimae disputationes (pp. 244-252). Ugualmente composto con finalità didattiche doveva essere il De poetis antiquis, opera in distici che si può far risalire agli anni 1460-67 e che rimase incompiuta: attualmente rimangono quattro vite (ed. Dell’Oro, pp. 433-443), cioè quelle di Ovidio, Virgilio, Teocrito, Orazio, nonché la notizia della composizione di una vita di Omero. L’opera sicuramente più importante di questo secondo soggiorno urbinate, composta tra la fine del 1462 e gli inizi del 1463, rimane il dialogo Iocundissimae disputationes, dedicato a Ottaviano degli Ubaldini e conservato nel solo codice di dedica, il Vat. Urb. lat. 1200, che reca qualche correzione autografa del Filetico.

Attraverso i quattro interlocutori, cioè il F., che recita la parte di magister, Antonio, figlio di Federico, che rappresenta il livello elementare di istruzione, Costanzo e Battista Sforza, che rappresentano rispettivamente quello medio e superiore, vengono in qualche modo illustrati i metodi di insegnamento. Nel 1467 il F. si trasferì a Roma, forse stanco di lavorare come semplice magister, alla ricerca di un livello superiore di insegnamento, attratto dal vivace ambiente culturale romano. Entrò in contatto con il Bessarione e la sua cerchia, dove la presenza di bizantini non poteva che sollecitare le sue ambizioni di conoscitore della lingua e del mondo greco: al cardinale Niceno dedicò una lunga ode saffica (conservata nel citato manoscritto della Laurenziana 38, 38 e nel manoscritto Harl. 2574 della British Library di Londra) dal titolo De novem musis, dove appunto il Bessarione è raffigurato come il mecenate a cui si inclinano tutte le muse. Il F. entrò in contatto anche con Antonio Colonna, prefetto di Roma, per intervento del quale egli iniziò a insegnare presso lo Studium Urbis: mancano dati precisi sui primi anni di insegnamento, ma alcune notizie frammentarie riescono a ricostruire a sufficienza il quadro. Il corso su Giovenale, datato 1469-70, e quello precedente su Persio (1468-69) testimoniano che a quella data il F. era lettore di retorica, forse non in forma continuativa come suggerisce da un lato il fatto che nel 1470-71 il F. divenne precettore di Giovanni Colonna, figlio di Antonio, e dall’altro il contenuto del breve pontificio datato 31 genn. 1473: in esso, a seguito della temporanea assenza di Gaspare da Verona che si recava a Viterbo, il F. venne nominato suo sostituto dal rettore dello Studium Urbis Niccolò Capranica, in aggiunta tra l’altro alla cattedra di greco, che già ricopriva. Con tutta probabilità, dal momento che la congiura degli accademici romani contro il pontefice aveva provocato l’incarcerazione di molti professori dello Studium, il F. si era indirettamente avvantaggiato per ricoprire una delle cattedre scoperte; l’espressione “tangere nam potero portum, tua dicta secutus”, che si ritrova nel lungo carme dedicato a Paolo II (Vat. lat. 3607, f. 3r: si tratta di un codice di dedica, rivisto dall’autore), allude all’imminente inizio di attività presso lo Studium che va con tutta probabilità collocato all’autunno del 1468.

Nei primi anni di insegnamento il F. riscosse grande successo: un suo allievo, “Mariarius praenestinus”, che può essere forse identificato con Mariano de Blanchellis, ricorda, nel trascrivere “precipiti calamo” il commento a Persio, che il F. dettava “in gymnasio romano innumerabili auditorum multitudini” (Vat. Ottob. lat. 1256, f. 51r); e del resto, nel dedicare questo commento ad Alessandro Sforza, lo stesso F. precisava che circolavano ben duecento copie del suo dettato. E anche nel commento a Giovenale, che sulla scorta del ricordato manoscritto 1190 della Riccardiana di Firenze, trascritto da Pietro Pacini da Pescia, si apprende risalire al 1469-70, “Marianus praenestinus” ribadiva di aver raccolto le lezioni del F. “inter alios innumerabiles scholasticos” (Ottob. lat. 1256, f. 1r). Con Giovenale il F. si impegnava in un testo per così dire canonico, su cui si era cimentato il suo maestro Guarino e su cui, nella Roma degli anni Cinquanta-Sessanta si erano affaticati Gaspare da Verona e Angelo Sabino.

La peculiarità dell’insegnamento del F. consisteva nella conoscenza delle etimologie e della lingua greca, nonché nel ricorso a testi di scarsa diffusione: nella dedica del commento all’Ars poetica di Orazio il F. risulta essere possessore di un codice dello pseudo Acrone. Quanto alla data di questo commento oraziano (anch’esso tramandato nel Vat.Ottobon. lat. 1256; cfr. Codices Horatiani in Bibl. apost. Vat., a cura di M. Buonocore, Città del Vaticano 1992, p. 83), tenendo conto che nella dedica ad Alessandro Sforza del commento a Persio (1468-69) il F. annunciava la prossima composizione del commento a Giovenale e a Orazio e tenendo conto che il commento a Giovenale risale al 1469-70, si può solo indicare come terminus post quem il 1469-70, ma si può anche ipotizzare qualche anno accademico successivo. La sopraccennata sostituzione con Gaspare da Verona nel gennaio 1473 non deve sorprendere: probabilmente il F. aveva conquistato la fiducia dell’anziano Gaspare, il quale, del resto, nel Vat. lat. 2710, contenente ai ff. 1r-56v il commento a Persio del F., aveva apposto qualche nota marginale.

Il F. risulta ben inserito nell’ambiente romano: compose un carme in lode del potente cardinale Pietro Riario (compreso nella raccolta poetica di Tommaso Baldinotti, attualmente nella Biblioteca Corsiniana di Roma, ms. 582, ff. 76v-77v), scrisse due epigrammi sul gruppo marmoreo delle grazie conservate presso la dimora del cardinale Prospero Colonna dal titolo De ortu et statu Charitarum e De significatione Charitum (sitrovano, tra l’altro, in un codice copiato da Bartolomeo Fonzio, attualmente posseduto da John Sparrow ad Oxford: Kristeller, IV, p. 269a). Ma soprattutto partecipò alle feste e alle celebrazioni per la venuta a Roma dell’imperatore Federico III negli ultimi mesi del 1468: in tale occasione il F. dedicò all’imperatore la sua traduzione dal greco dell’ANicocle, ovvero De regno, di Isocrate, ricevendone probabilmente in contraccambio il titolo di “eques” e “comes palatinus” (e forse anche la laurea poetica) di cui si fa cenno nell’epigrafe tombale. “Poeta laureatus”, “eques” e “comes palatinus” veniva ugualmente definito il F. in una medaglia coniata da Lisippo il Giovane, probabilmente sotto il pontificato di Sisto IV (G. F. Hill, A corpus of Italian Medals of the Renaissance before Cellini, London 1930, p. 205, n. 789, tav. 130), nella quale il F. è raffigurato sul retto di profilo con le sembianze di un antico romano, mentre sul verso è riprodotta l’immagine del pellicano che imbocca i piccoli, ripetendo così la stessa iconografia che Pisanello aveva elaborato per la medaglia di Vittorino da Feltre: allusione quanto mai esplicita al ruolo di insegnante da un lato e al lavoro di commentatore di testi antichi dall’altro.

La segreta aspirazione del F. rimaneva però quella di poeta: alla morte di Battista Sforza (1472) scrisse una lunga elegia e compose due epitaffi che furono inseriti da Federico Veterani in quella raccolta poetica in memoria di Battista che è appunto l’attuale Vat. Urb. lat. 1193 (epitaffi che, nell’ordine della raccolta, fanno seguito a un epitaffio, del nemico Porcelio). Tale vena poetica, pur continuando la sua professione di lettore di retorica e di greco allo Studium, egli mantenne anche quando, intorno agli anni Ottanta, si accostò all’attività tipografica che con particolare vigore era sorta nella Roma di quegli anni e verso la quale i professori dello Studium si venivano via via accostando con sempre maggiore interesse: così, quando il collega Giovanni Sulpizio da Veroli curò nell’agosto 1481 la seconda edizione della sua Grammatica (Ind. gen. degli incunaboli [I.G.I.],9197; Ind. delle ediz. rom. a stampa [I.E.R.S.], 689; la prima era stata stampata a Perugia intorno al 1475), dedicandola a Falcone Sinibaldi, due brevi componimenti del F., ovviamente elogiativi di Sulpizio, si trovano accanto a quelli del Platina e di Pomponio Leto (c. 9v).

Lo stesso F. diede alle stampe la sua versione degli Idilli di Teocrito, rivedendone il testo rispetto alla redazione conservata nel codice padovano e facendo precedere la traduzione dal De vita Theocriti in libro de poetis antiquis (c. 1r) e da una dedica in versi a Federico da Montefeltro (c. 1v): i versi conclusivi dedicati “ad Eucharium impressorem” consentono di individuare il tipografo, cioè Eucario Silber, e datare approssimativamente al 1482 questa edizione romana (I.G.I., 9498; I.E.R.S., 751).

D’altra parte, sicuramente con il consenso del F., veniva stampato il commento al De senectute ciceroniano, in una redazione rivista rispetto a quella del periodo pesarese e priva ovviamente della dedica a Costanzo Sforza: tale commento del F. si ritrova sia in un’edizione padovana assegnata al 1481-82 (I.G.I., 2905; Gesammtkatalog der Wiegendrucke [G.W.], 6948), nella quale Raffaele Regio dedicava il De officiis ad Antonio Moretto, insieme con il commento di Ognibene da Lonigo al De amicitia e con un anonimo commento ai Paradoxa stoicorum, sia in quella raccolta di testi ciceroniani stampata a Venezia da Battista Torti il 26 sett. 1482 (I.G.I., 2908; G.W., 6952), che si apre con il commento di Pietro Marsi al De officiis (M. Dykmans, L’humanisme de Pierre Marso, Città del Vaticano 1988, p. 59) e che ebbe grandissima diffusione (I.G.I., 2909-2921; G.W., 6953-6972).

Ma soprattutto il F. diede alle stampe, intorno al 1482, utilizzando probabilmente ancora una volta la tipografia del Silber, le Epistolae selectae di Cicerone, accompagnate da un suo commento (I.G.I., 2858; I.E.R.S., 1185), che, tra l’altro, sarebbe stato inserito da Giorgio Merula nell’edizione veneziana del 20 sett. 1491 (I.G.I., 2844; G.W., 6845) e successive ristampe (I.G.I., 2845-2853; G.W., 6846-6857), accanto ai commenti di Ubertino Clerico, del Poliziano e dello stesso Merula.

Forse a causa della concorrenza e del venir meno del successo come insegnante di greco e di retorica latina il F. nel 1483 abbandonò lo Studium: il 28 gennaio (con mandato 25 aprile) è registrato un pagamento che venne però riscosso da un procuratore del F., cioè Valentino da Ferentino, che avrebbe poi curato l’iscrizione tombale; al 29 marzo (con mandato 2 ottobre) risale quello che sembra essere l’ultimo pagamento a lui effettuato. Il F. si ritirò a Ferentino (Frosinone), dove istituì una scuola, della quale è rimasta testimonianza attraverso documenti notarili più tardi.

Il F. morì a Ferentino intorno al 1490, ma la data di morte, al pari di quella di nascita, è altrettanto ipotetica; l’iscrizione sepolcrale ricorda solo che visse sessanta anni.

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